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giovedì 2 aprile 2020

STEP #06 La forma di Pirandello


“La vita è flusso continuo, incandescente e indistinto. La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco, non la terra che si incrosta e assume forma. Ogni forma è la morte. Tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprende, in questo flusso continuo, incandescente e indistinto è la morte”.
-“La trappola”, Pirandello
René Magritte, Decalcomania, 1966
Pirandello ha una concezione della morte del tutto originale, come, d’altronde, è quella della vita.  La morte è forma, ovvero quelle convinzioni sociali che l’individuo è costretto a seguire. La morte, quindi si manifesta come impossibilità di mutare il proprio modo di essere a causa di abitudini, autoinganni, occupazioni e legami familiari. Quando l’uomo si accorge di questa morte spirituale, tenta in tutti i modi di reimmergersi nel “flusso continuo della vita”. Ciò avviene, per esempio, nel romanzo “Uno, Nessuno e Centomila”. Ad inizio romanzo, il protagonista Vitangelo Moscati scopre di avere il naso storto, dettaglio del suo volto che non aveva mai notato.  Vitangelo inizia a compiere azioni folli, che gli permettono di mutare forma e, quindi, di sentirsi vivo. Crea in ogni momento una nuova identità, disgregando completamente l’ “io” convenzionalmente riconosciuto, morendo e rinascendo in un sé nuovo in ogni istante.  Al termine del romanzo viene dichiarato insano di mente e proprio nell’ospizio in cui si trova riflette sulla contrapposizione tra morte e vita.
Di seguito è riportato il finale di “Uno, nessuno e centomila” di Pirandello.
"E l'aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com'è, che s'avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni. La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridio delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei. Pensare alla morte, pregare. C'è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l'ho più questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori".

In “Colloquii coi personaggi”, novella del 1915, Pirandello propone una visione surreale della morte . In questo racconto troviamo un intreccio tra avvenimenti autobiografici e elementi di fantasia, infatti, Pirandello immagina di parlar con la madre defunta. In questo intenso dialogo, a tratti umoristico, lo scrittore illustra come in realtà non sono i nostri cari ad essere morti, bensì noi. Non possiamo essere ricordati dai morti e dunque siamo per loro definitivamente scomparsi, mentre essi sono sempre vivi nei nostri pensieri.



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